Certamente l'erba di un campo di calcio non è un'erba qualunque...

Non nasce per caso, è tagliata, curata, amata, viziata; ha intorno a sé rettilinee tracce di gesso che la delimitano e ne imbrigliano la vitale forza selvaggia che ogni piccolo stelo ha dentro di sé.

Non tutti i campi in cui abbiamo giocato erano ricoperti d'erba.
Ma l'immagine che ho dentro e che più mi emoziona è l'uscire dall'ombra degli spogliatoi accompagnato dal suono dei tacchetti, mentre si apre dinanzi ai miei occhi la distesa verde illuminata dai fari; già non riconosco più le parole dalle voci, mi fermo solo a guardare il prato, così delicato al tatto e alla vista, tuttavia così infido quando rifugge la presa dei tacchetti o deforma le paraboliche traiettorie della sfera.
E quando il mio avversario si lancia sulla fascia per conquistare l'area, un tackle disperato allunga tutto il mio corpo verso la palla e, disteso a terra, sento che l'intenso profumo dell'erba si arrampica sulla mia pelle e sulla divisa non più candida.

Poi, finita la gara, sento il fiato placarsi e trascino gli stanchi muscoli agognanti il ristoro; eppure prima di andarmene mi volto a guardare per l'ultima volta il prato non più accecato dai fari ormai stanchi: lui già si addormenta, ma so che la prossima volta sarà ancora là, perché l'erba di un campo di calcio non esiste per sé, esiste per essere calpestata, e non le importa se a farlo siano i ferrei tacchetti di uno scaltro mercenario o le suole consunte di un bambino sognante.